Durante lo scorso inverno, quando la maggior parte delle persone sono rimaste isolate a causa del Covid, molti hanno sottolineato come questo avrebbe cagionato problemi economici, tuttavia, alcuni si sono interrogati anche sulle conseguenze psicologiche. Perché la psiche, più che mai oggi, è oggetto di studio per poter supportare le persone nei diversi ambiti personali e professionali. Ad esempio, Mindwork è una società che affianca le aziende e gli HR per offrire counseling psicologico e coaching in videochiamata a tutti i propri collaboratori, per migliorare il benessere e destigmatizzare la salute mentale a lavoro.
Quando si sta bene psicologicamente, si lavora meglio
GaiaZoe ha intervistato Cristina di Loreto, che oltre a occuparsi di psicologia clinica e criminologia, lavora da anni sul tema dell’emergenza, affiancando e supportando le forze dell’ordine e dell’emergenza italiane. Di Loreto è Head of Training & Advisor di Mindwork.
Ci sono molti motivi per cui le donne hanno avuto un maggiore impatto psicologico in seguito al lockdown. Se noi donne siamo per nostra natura biologica e psichica maggiormente esposte a sviluppare determinati disagi, consideriamo che l’isolamento ha portato per molte incertezza economica e potenziale perdita del lavoro, la cura dei figli è diventata primaria e non sostentata economicamente e socialmente. Inoltre, il lockdown ha amplificato gli episodi di violenza domestica. A mio avviso l’impatto ha riguardato moltissimo le madri che hanno dovuto portare avanti il lavoro da casa e gestire home schooling o figli in età pre-scolare.
L’essere umano gode di un’ottima capacità di adattarsi e di superare anche le tragedie più impensabili. Quella che ci lasciamo alle spalle è un’esperienza fortissima e che ha lasciato molti strascichi, non tutti negativi. Alcuni sono tornati ad apprezzare il tempo in famiglia, altri hanno riscoperto passioni trascurate, altri ancora hanno voluto cambiare qualcosa di loro o della loro vita. Penso che in questo caso la parola d’ordine sia responsabilità. Dovremmo affrontarlo con la responsabilità di chi comprende che sia necessario per la nostra tutela e prendendoci la responsabilità di farla diventare un’esperienza vivibile. Se non possiamo controllare certi eventi dovremmo cercare di controllare la nostra reazione ad essi.
Il processo di resilienza, che ricordo essere un processo dinamico e non una qualità statica dell’individuo, sembrerebbe non presentare grosse differenze di genere. Ciò che invece si è evidenziato da diverse ricerche è che le donne tendono in misura statisticamente significativa maggiore degli uomini a ricercare dopo eventi salienti il supporto sociale. Essendo quest’ultimo, uno dei maggiori fattori protettivi rispetto alla psicopatologia trovo che sia un punto a favore del genere femminile, questo permette di capire anche come mai l’isolamento, che ha ostacolato questa grande risorsa, abbia impattato maggiormente.
Basterebbe informarsi sui dati e osservare i numeri per comprendere come questi aspetti siano correlati. Oltre all’alto turnover, che per motivi di salute psicologica si rileva in misura maggiore tra i Millennials e la Generazione Z, come indicato da alcuni studi pubblicati su Harvard Business Review, anche l’assenteismo che molti disagi psicologici può portare dovrebbe spingere aziende e manager a investire nella salute psicologica delle proprie persone. Considerate che, ad esempio, la Commissione Europea stima che l’assenteismo legato alla salute psicologica in Europa produce una perdita in produttività di circa 136 miliardi di euro annui.
Attraverso un adeguato supporto psicologico, migliora la qualità della vita della persona, migliorando lo stato di benessere individuale inevitabilmente migliora l’efficienza e l’efficacia della performance lavorativa. Il paradigma “se lavoro tanto guadagno tanto e sarò felice” è assolutamente fallimentare, ciò che funziona è “se sono felice, lavoro bene e guadagnerò di questo risultato” (io o l’azienda o entrambi).
I disagi che sono più frequentemente correlati al mondo aziendale hanno a che vedere con la scarsità di tempo libero, il gravoso carico lavorativo e dunque elevati livelli di stress, cambiamenti organizzativi, conflitti relazionali, ansia, depressione e non dimentichiamo l’impatto della vita, dei suoi eventi e in alcuni casi degli ostacoli che ci pone davanti.
Sulla sindrome da burn out dovremmo fare due distinzioni. Quella tipica delle professioni di aiuto e che durante questa emergenza produce e produrrà notevoli disagi soprattutto su infermieri, medici e professionisti dell’aiuto (non ultimi noi psicologi) é fortunatamente attenzionata in questo momento. Noi stessi come Mindwork abbiamo attivato un importantissimo progetto per gli operatori sanitari grazie al sostegno di un’importantissima azienda. Ciò non vuol dire che esista in Italia la cultura del benessere e l’adeguata prevenzione di questo disturbo. Il burn out da carico lavorativo invece, è a mio avviso ancora molto sottovalutato dalle aziende che continuano ad usare il paradigma sopracitato: “se lavori tanto, guadagnerai tanto e sarai felice”.
Concludo con le parole di Albert Schweitzer, classe 1875, che aveva compreso molte cose:
“Il successo non è la chiave della felicità. La felicità è la chiave del successo.” (A cura di Gaiazoe)