Le parole di Niccolò Banfi ci accompagnano in un viaggio che va oltre la semplice esplorazione geografica: è un’esplorazione interiore e collettiva, alla ricerca di un nuovo equilibrio tra l’essere umano e la natura. Attraverso la lente dell’esperienza e della sensibilità, l’osservazione diventa un atto di cura, la tecnologia un alleato rispettoso, e la narrazione un ponte tra mondi lontani. Le isole, i coralli, gli oceani e le comunità che vivono in simbiosi con essi emergono come protagonisti di una storia di fragilità e resilienza, in cui ogni dettaglio — un vento, una marea, una specie che scompare — racconta qualcosa del nostro tempo. In questa intervista, l’eco esploratore condivide con Gaiazoe.life riflessioni profonde sul ruolo dell’uomo nella tutela del pianeta, sull’importanza di osservare con empatia e di viaggiare con consapevolezza, offrendo uno sguardo lucido e poetico su ciò che significa oggi essere custodi del mondo che abitiamo.

Degli ecosistemi e delle specie
In base alle tue osservazioni dirette, quali specie o ecosistemi ritieni che richiedano oggi l’attenzione più urgente?
Le isole sono come microcosmi sospesi, luoghi in cui tutto è amplificato: la bellezza e la fragilità. Vivendo e documentando gli ecosistemi insulari, ho visto quanto possano essere incredibilmente vulnerabili e, al tempo stesso, resilienti. Le barriere coralline, in particolare, sono il termometro del Pianeta: la loro salute riflette il nostro rapporto con l’oceano. Ogni volta che torno in un arcipelago, noto cambiamenti sottili ma profondi — nuove specie invasive, maree insolite o spiagge che scompaiono. Credo che oggi l’attenzione più urgente debba essere rivolta a questi ecosistemi di frontiera, dove la terra incontra il mare e la vita dipende da un equilibrio fragile e invisibile.
Quale ruolo giocano le nuove tecnologie (droni, sensori, intelligenza artificiale) nel monitoraggio e nella protezione dell’ambiente?
La tecnologia ha trasformato il modo in cui possiamo osservare la natura, ma solo se resta uno strumento e non un filtro. I droni, per esempio, mi permettono di esplorare paesaggi inaccessibili e di cogliere una prospettiva più ampia e rispettosa. Posso osservare una colonia di uccelli marini senza disturbarla o seguire il movimento di una corrente costiera con un dettaglio un tempo impensabile. L’intelligenza artificiale e i sensori ambientali aggiungono una nuova dimensione, perché raccolgono dati che ci aiutano a comprendere i cambiamenti in tempo reale. Ma non sostituiranno mai l’intuizione o la sensibilità umana. La vera innovazione sta nel combinare la precisione tecnologica con l’empatia e la pazienza dell’osservazione umana.
Tu documenti la natura e la sua fragilità: quanto è importante condividere le tue scoperte con il pubblico per accrescere la consapevolezza?
Condividere è una parte essenziale dell’esplorazione. Un viaggio è incompleto se non diventa racconto. Ogni immagine, ogni sequenza, ogni suono raccolto in un luogo remoto porta con sé una responsabilità: trasformare la meraviglia in consapevolezza. Documentare la fragilità non significa solo mostrare ciò che rischia di scomparire, ma far sentire alle persone che appartengono a quel medesimo mondo vivente. Se anche solo una persona cambia il modo in cui vive il mare o la montagna dopo aver visto il mio lavoro, allora tutti quei mesi di fatica hanno un senso.

Un messaggio per le nuove generazioni
Quale messaggio vorresti lasciare alle giovani generazioni che desiderano avvicinarsi all’esplorazione ecologica?
A chi sogna di esplorare direi: non partite per conquistare, ma per comprendere. L’esplorazione oggi non consiste più nel trovare nuovi territori, ma nell’imparare a vedere. Osservate, fermatevi, ascoltate. Le risposte non si nascondono in terre lontane, ma nel modo in cui scegliamo di guardarle. Il futuro dell’esplorazione non sta nella lotta contro la natura, ma nell’alleanza con essa.
Come esploratore, come vedi il fenomeno del turismo di massa e in che modo può trasformarsi in turismo responsabile?
Il turismo di massa nasce da un autentico desiderio di vedere e sperimentare. Ma quando diventa consumo, perde la sua anima. Ho visto isole distrutte dall’eccessiva esposizione e altre rinascere grazie a coraggiose scelte di conservazione. Il turismo può diventare un atto di rispetto se è radicato nell’ascolto, se dà forza alle comunità locali e se accetta dei limiti. Non dobbiamo arrivare ovunque. A volte la forma più autentica di viaggio è lasciare certi luoghi intatti. Sogno un modo di viaggiare più lento e consapevole, che restituisca più di quanto prende.
Quali sono i tre cambiamenti più urgenti che l’umanità deve attuare per ridurre il proprio impatto sul pianeta?
Per prima cosa, dobbiamo imparare a consumare meno — non solo energia o plastica, ma anche spazio. Ogni tratto di costa edificato, ogni foresta abbattuta è un pezzo di futuro che perdiamo.
In secondo luogo, dobbiamo riconnetterci con la natura, smettere di considerarla qualcosa di separato da noi. Solo sentendoci parte del sistema possiamo davvero proteggerlo.
Infine, dobbiamo mettere la conoscenza al centro: educazione ambientale, ricerca, libero accesso all’informazione. Senza comprensione non può esserci consapevolezza. La sostenibilità non è una tendenza: è una cultura.
Durante le tue esplorazioni, come costruisci un rapporto di fiducia e collaborazione con le comunità che vivono a stretto contatto con ecosistemi fragili?
La fiducia non si può pretendere, si conquista. Quando arrivo su un’isola o in un piccolo villaggio, il primo passo è sempre ascoltare. Le persone che vivono in equilibrio con la natura possiedono un sapere che nessuna istituzione può insegnare. Cerco di imparare da loro, di condividere apertamente il mio lavoro e di creare storie che li rappresentino con dignità. La collaborazione nasce dal rispetto reciproco e dal tempo. Restare, vivere insieme, imparare il ritmo di un luogo: solo allora la macchina fotografica smette di essere un oggetto estraneo e diventa un ponte tra mondi.
Se dovessi catturare l’essenza del suo viaggio in una frase o in un’immagine, quale sceglieresti?
L’immagine che porto dentro è quella di un arcipelago che emerge dal mare all’alba, con le nuvole che si dissolvono mentre le isole prendono lentamente forma, una dopo l’altra. È quel momento in cui il mondo si rivela nel silenzio, senza parole. L’esplorazione, per me, è quell’istante sospeso in cui l’ignoto smette di far paura e diventa meraviglia. Ogni isola è una storia che appare solo a chi sa attendere la luce giusta, la marea giusta, il momento in cui la natura decide di mostrarsi.
Dove ti porterà il tuo prossimo viaggio?
Tornerò nell’Oceano Pacifico, in alcune delle isole più remote e ricche di storia della Terra, come l’Isola di Pasqua, Pitcairn e gli atolli della Polinesia Francese. Ognuna di queste terre ha una propria voce: Rapa Nui, con i suoi Moai rivolti verso l’interno, racconta l’antico legame tra l’uomo e la terra; Pitcairn è un microcosmo di isolamento, dove poche persone vivono in armonia con un oceano senza fine; e la Polinesia conserva ancora l’eco delle prime grandi traversate marittime dell’umanità. Questo nuovo documentario esplorerà la resilienza delle isole e delle culture oceaniche, il modo in cui si adattano ai cambiamenti climatici, come preservano il loro legame ancestrale con il mare e proteggono saperi che il mondo moderno ha quasi dimenticato. Tornare nel Pacifico è come tornare all’origine delle cose: per ascoltare ancora una volta il respiro del pianeta, là dove la vita è ancora misurata dal ritmo delle maree.
(intervista raccolta da Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life)

ENGLISH VERSION
Based on your direct observations, which species or ecosystems do you believe require the most urgent attention today?
Islands are like suspended microcosms, places where everything is amplified, both the beauty and the fragility. By living in and documenting island ecosystems, I’ve seen how incredibly vulnerable yet resilient they can be. Coral reefs, in particular, are the planet’s thermometer: their health reflects our relationship with the ocean. Each time I return to an archipelago, I notice subtle but profound changes such as new invasive species, strange tides, or beaches that vanish. I believe the most urgent attention today should be on these frontier ecosystems, where land meets sea and life depends on a fragile, invisible balance.
What role do new technologies (drones, sensors, artificial intelligence) play in monitoring and protecting the environment?
Technology has transformed the way we can observe nature, but only if it remains a tool and not a filter. Drones, for example, allow me to explore inaccessible landscapes and capture a broader, more respectful perspective. I can watch a seabird colony without disturbing it or follow the movement of a coastal current in detail that was once impossible. Artificial intelligence and environmental sensors add a new dimension because they collect data that helps us understand change in real time. But they will never replace intuition or human sensitivity. True innovation lies in combining technological precision with the empathy and patience of human observation.
You document nature and its fragility: how important is it to share your discoveries with the wider public in order to raise awareness?
Sharing is an essential part of exploration. A journey is incomplete if it doesn’t become a story. Every image, every sequence, every sound gathered from a remote place carries a responsibility: to turn wonder into awareness. Documenting fragility doesn’t just mean showing what might disappear; it means making people feel that they belong to that same living world. If even one person changes the way they experience the sea or the mountains after watching my work, then all those months of effort have meaning.
What message would you like to leave to the younger generations who wish to approach ecological exploration?
To those who dream of exploring, I’d say: don’t set out to conquer, set out to understand. Exploration today is no longer about finding new territories; it’s about learning to see. Observe, pause, listen. The answers aren’t hidden in faraway lands but in how we choose to look at them. The future of exploration isn’t in the struggle against nature, but in forming an alliance with it.
As an explorer, how do you view the phenomenon of mass tourism, and in what ways can it be transformed into responsible tourism?
Mass tourism is born from a genuine desire to see and experience. But when it becomes consumption, it loses its soul. I’ve seen islands destroyed by overexposure and others reborn thanks to courageous conservation choices. Tourism can become an act of respect if it’s rooted in listening, if it empowers local communities, and if it embraces limits. We don’t have to reach everywhere. Sometimes the truest form of travel is to leave certain places untouched. I dream of a slower, more conscious kind of travel that gives back more than it takes.
In your opinion, what are the three most urgent changes humanity must implement to reduce its impact on the planet?
First, we must learn to consume less, not only energy or plastic, but space itself. Every piece of coastline built upon, every forest cleared, is a piece of future we lose.
Second, we need to reconnect with nature, to stop seeing it as something separate from us. Only by feeling part of the system can we truly protect it.
And finally, we must put knowledge at the center. Environmental education, research, free access to information: without understanding, there can be no awareness. Sustainability isn’t a trend; it’s a culture.
During your explorations, how do you build a relationship of trust and collaboration with the communities living in close contact with fragile ecosystems?
Trust can’t be demanded; it’s earned. When I arrive on an island or in a small village, the first step is always to listen. People who live in balance with nature hold knowledge that no institution can teach. I try to learn from them, to share my work openly, and to create stories that represent them with dignity. Collaboration grows from mutual respect and from time. Staying, living alongside, learning the rhythm of a place: only then does the camera stop being a foreign object and become a bridge between worlds.
If you had to capture the essence of your journey in one phrase or one image, which would you choose?
The image I carry inside me is of an archipelago rising from the sea at dawn, the clouds dissolving as the islands slowly take shape, one by one. It’s that moment when the world reveals itself in silence, without words. Exploration for me is that suspended instant when the unknown stops being something to fear and becomes something to marvel at. Every island is a story that appears only to those who wait for the right light, the right tide, the right moment when nature decides to be seen.
Where will your next journey take you?
I’m returning to the Pacific Ocean, to some of the most remote and storied islands on Earth, places like Easter Island, Pitcairn, and the atolls of French Polynesia. Each of these lands has its own voice: Rapa Nui, with its Moai facing inland, speaks of the ancient bond between humans and the land; Pitcairn is a microcosm of isolation where a handful of people live in harmony with an endless ocean; and Polynesia still carries the echo of the first great seafaring journeys of humankind. This new documentary will explore the resilience of islands and oceanic cultures, how they adapt to climate change, how they preserve their ancestral link to the sea, and how they protect knowledge that the modern world has almost forgotten. Returning to the Pacific feels like going back to the origin of things, to listen once more to the planet’s breath, where life is still measured by the rhythm of the tide.
