Mentre le luci delle passerelle d’estate illuminano silhouette impeccabili e look da copertina, le voci delle lavoratrici dipendenti Max Mara in sciopero per maltrattamenti continuano a rimanere inascoltate. Ancora una volta, la moda ha perso un’occasione cruciale per dimostrare coerenza con i valori che proclama: inclusività, rispetto, sostenibilità.
Il coraggio delle lavoratrici Max Mara
Negli ultimi mesi, oltre 200 dipendenti della Manifattura San Maurizio, una delle aziende storiche del gruppo Max Mara, hanno denunciato pubblicamente episodi di mobbing, body-shaming, ritmi produttivi oppressivi e una gestione autoritaria. Con il sostegno della Filctem-CGIL e di altre sigle sindacali locali, le lavoratrici hanno dato vita a uno sciopero senza precedenti, che ha riportato sotto i riflettori una dinamica fin troppo familiare nel mondo della moda: il divario profondo tra la narrazione patinata e la realtà del lavoro delle lavoratrici nelle filiere produttive.
Un sistema che non tollera la dissonanza
La risposta aziendale non si è fatta attendere: smentite ufficiali, dichiarazioni rassicuranti sul rispetto delle regole e perfino una lettera firmata da decine di dipendenti non scioperanti, che difendono l’ambiente di lavoro. Nel frattempo, Max Mara ha ritirato il proprio impegno nel progetto urbanistico “Polo della Moda” di Reggio Emilia, in quella che molti hanno letto come una reazione ritorsiva al clima di protesta e alle posizioni assunte da parte della politica locale.
Ma il vero silenzio che fa rumore è quello dei media di moda. Salvo rare eccezioni, le riviste più influenti del settore hanno preferito concentrarsi sui cappotti, sulle celebrities in front row e sulle palette cromatiche di stagione, ignorando quasi del tutto le richieste di giustizia sociale delle lavoratrici. Disturbare l’armonia estetica della passerella con la verità del lavoro sembra essere ancora un tabù.
Perché questa reticenza? Perché parlare di diritti e condizioni lavorative resta così scomodo? Perché la moda, pur dichiarandosi progressista e attenta all’etica, continua a dipendere da dinamiche di potere consolidate, dove l’accesso a eventi, interviste e collaborazioni è spesso subordinato alla complicità silenziosa con i grandi gruppi. Esporsi, per molti, significa rischiare l’esclusione dal sistema.
Verso una moda più trasparente?
Il 22 luglio 2025, il Ministro dell’Industria ha annunciato lo sviluppo di una certificazione obbligatoria di sostenibilità e legalità per le filiere moda, pensata per proteggere il “Made in Italy” e rispondere agli scandali che, da Max Mara a Loro Piana, da Valentino a Dior e Armani, hanno messo in discussione la reputazione del settore. Una misura necessaria, ma non sufficiente.
Se la moda vuole davvero essere credibile, deve guardare con onestà anche agli angoli bui del suo sistema. Le aziende devono rispondere non solo alle richieste del mercato, ma prima di tutto alle esigenze e ai diritti delle persone che permettono ogni giorno la creazione dei prodotti. E il giornalismo di moda ha la responsabilità di raccontare anche ciò che non fa trend: lo sfruttamento, il silenzio, la lotta per la dignità.
Nel mondo della sostenibilità, non esistono capsule collection di valori. L’etica non può essere una limited edition: o si pratica ogni giorno, oppure è solo marketing.
(a cura di Gaiazoe.life)