L’Amazzonia è sempre stata definita il polmone verde del pianeta. Ma negli ultimi quarant’anni questo polmone respira sempre più a fatica. Secondo un recente rapporto di MapBiomas, l’Amazzonia brasiliana ha perso 52 milioni di ettari di vegetazione nativa, un territorio grande quanto la Francia. A spingere questa trasformazione sono soprattutto l’allevamento e l’agricoltura intensiva, che negli ultimi decenni hanno avanzato senza sosta.
Tra il 1985 e il 2024 la copertura forestale si è ridotta del 13%. Le aree destinate ai pascoli sono cresciute del 355%, passando da 12,3 a 56,1 milioni di ettari, mentre la coltivazione della soia, da sola, ha raggiunto quasi 6 milioni di ettari. Un’espansione che preoccupa gli scienziati: «L’Amazzonia brasiliana si sta avvicinando alla fascia critica del 20-25% di perdita forestale, la soglia oltre la quale la foresta potrebbe non essere più in grado di sostenersi», ha spiegato il ricercatore Bruno Ferreira di MapBiomas.
Cosa è successo negli ultimi due anni
Negli ultimi due anni il quadro ha mostrato luci e ombre. In Brasile, la deforestazione netta ha registrato un rallentamento: tra agosto 2023 e luglio 2024 è calata del 30%, raggiungendo uno dei livelli più bassi dal 2015. Un segnale positivo, frutto anche di politiche di protezione più severe.
Eppure, mentre cala il disboscamento totale, aumenta un fenomeno più silenzioso ma altrettanto pericoloso: la degradazione forestale. Incendi, tagli selettivi, perdita di biodiversità e stress climatico hanno reso l’Amazzonia sempre più fragile. Nel 2024 la superficie degradata è cresciuta addirittura del 497% rispetto all’anno precedente.
Il quadro non è uniforme in tutta la regione. In Colombia, ad esempio, nel 2024 la deforestazione è aumentata, ma nei primi mesi del 2025 si è registrato un calo significativo, superiore al 30%.
Perché la foresta è così importante
L’Amazzonia non è soltanto un patrimonio naturale: è un regolatore climatico globale. Diversi studi hanno mostrato che alcune zone della foresta stanno già passando dall’essere un grande assorbitore di CO₂ a diventare una fonte netta di emissioni, soprattutto a causa degli incendi e del degrado.
La perdita della copertura forestale altera profondamente il ciclo dell’acqua: meno alberi significa meno evapotraspirazione, meno piogge e stagioni secche più lunghe, non solo in Sud America ma anche in altre regioni del pianeta. Il risultato? Siccità più intense, temperature più alte e incendi più frequenti.
Anche la biodiversità soffre: foreste frammentate non riescono a sostenere la stessa ricchezza di specie. E insieme alla natura, sono colpite le comunità indigene, che dalla foresta traggono risorse, cibo e identità culturale.
Il rischio del “punto di non ritorno”
Gli scienziati avvertono che siamo sempre più vicini a un tipping point. Se la perdita di foresta dovesse superare il 20-25%, ampie aree dell’Amazzonia potrebbero trasformarsi in savana o in ecosistemi molto più poveri, incapaci di rigenerarsi.
Si tratta di una corsa contro il tempo: ogni anno che passa senza azioni decise rende più difficile invertire la rotta.
Un futuro ancora possibile?
Nonostante le ombre, c’è ancora spazio per la speranza. La riduzione della deforestazione in Brasile dimostra che le politiche di protezione e i sistemi di monitoraggio funzionano quando vengono applicati. Ma da soli non bastano: serve un impegno globale, perché l’Amazzonia non appartiene soltanto ai paesi che la ospitano, ma a tutta l’umanità.
Salvare l’Amazzonia significa preservare un ecosistema unico e vitale, capace di regolare il clima, produrre acqua e custodire una biodiversità straordinaria. Significa anche proteggere il futuro del pianeta, che oggi più che mai dipende da questo fragile equilibrio verde.
(a cura di Gaiazoe.life)