Nel cuore della Tuscia, lontano dai riflettori delle capitali della moda, è nata una storia silenziosa ma potente. Una storia che non parla di startup, ma di radici. Non di trend, ma di visione. In un territorio che non offre filiere pronte né distretti industriali, ma regala lentezza, ascolto e bellezza grezza, una piccola realtà ha scelto di costruire un nuovo modello produttivo, artigianale e profondamente umano. Questo dialogo racconta come un ritorno a casa si sia trasformato in un atto di resistenza creativa, in una pratica quotidiana di sostenibilità e in una voce poetica nel panorama del lusso contemporaneo. Gaiazoe ha intervistato Benedetta Bruzziches owner dell’omonimo brand di borse e accessori.
Made in Tuscia
Come è nata l’idea di creare un’azienda di borse nella Tuscia e quali sono i limiti e i punti di forza nel produrre in un territorio che non viene immediatamente collegato al mondo della moda?
Non è stata un’idea, è stato un ritorno. Tornare a Caprarola non è stato solo tornare a casa, ma riconoscere un luogo come radice possibile di un nuovo inizio. Non c’era un distretto produttivo ad accoglierci, né una filiera pronta. C’era il silenzio, la lentezza, la possibilità di osservare da vicino il territorio e inventare, con pazienza, un modello che non esisteva. Abbiamo cominciato con un piccolo laboratorio in casa e la ricostruzione, amorevole e visionaria, di una rete di sarte locali. Alcune avevano una formazione sartoriale, altre erano da formare da zero. Con loro abbiamo ricominciato a tessere non solo fili e materiali, ma competenze, fiducia, legami. Oggi quelle stesse sarte realizzano lavorazioni a mano che in Italia non si fanno quasi più. Ci permettono di creare in casa quello che altrove viene esternalizzato, e di farlo nel rispetto della vita, dei ritmi, della materia. È un modello che non avremmo potuto sviluppare altrove. È nato qui, proprio perché qui c’era lo spazio per rallentare, per radicare. Ciò che sembrava un limite è diventato un punto di forza: ci ha costretti a costruire qualcosa di unico, e ci ha donato una voce riconoscibile nel panorama del lusso contemporaneo.

È stato difficile emergere?
Non direi che siamo emersi. Siamo cresciuti — come le piante che mettono radici e piano piano sbocciano. Abbiamo fatto un passo alla volta, senza sapere esattamente dove saremmo arrivati, ma avendo ben chiaro da dove partivamo. Forse siamo stati anche fortunati, Di sicuro ce l’abbiamo messa tutta. Da Caprarola sapevamo che non avremmo potuto competere sul piano del marketing. E allora abbiamo scommesso tutto sull’unicità dell’oggetto, sulla sua qualità profonda, sulla forza poetica che poteva emanare. Non abbiamo inseguito i trend, ma coltivato un linguaggio nostro, un immaginario che piano piano ha cominciato a parlare a molte persone. La nostra è stata una crescita organica, fatta di coerenza e piccoli incantesimi quotidiani.
La sostebilità è abitare il mondo
Qual è il collegamento tra i vostri prodotti e la sostenibilità?
Per noi la sostenibilità è prima di tutto un modo di abitare il mondo. Produciamo internamente, solo ciò che serve, coinvolgendo donne del territorio che lavorano nel rispetto dei tempi della vita. Rispettare il ritmo delle persone e della materia è il nostro primo gesto sostenibile. Ma la vera sostenibilità è culturale: riportare lavoro e dignità nei piccoli centri, costruire filiere che abbiano un senso umano e non solo economico, trasformare la bellezza in un processo, non solo in un risultato.

Avete qualche certificazione?
Non abbiamo certificazioni formali, perché molte delle scelte che per noi contano davvero non sono ancora rappresentate da standard esistenti. Abbiamo costruito un modello produttivo tracciabile, trasparente, interno alla nostra Bottega. Monitoriamo ogni fase del processo, dalla scelta dei materiali alla gestione del lavoro. Per noi, la sostenibilità reale nasce dalla responsabilità e dal prendersi cura, ogni giorno.
Che tipo di relazione avete con le vostre maestranze?
Una relazione di prossimità, fatta di fiducia e ascolto. La nostra squadra è un organismo vivo, dove ognuno ha un ruolo attivo e pensante. Non c’è separazione tra chi disegna e chi realizza: cresciamo insieme, ci formiamo insieme, ci contaminano esperienze e sguardi nuovi. Molte delle artigiane lavorano da casa, seguendo i propri tempi. Questo permette a tante donne di conciliare famiglia e lavoro, e al tempo stesso di sentirsi parte di qualcosa di più grande. Lavoriamo come una piccola orchestra: ognuno ha la sua voce, il suo tocco, ma il risultato è corale.
Che cos’è l’artigianato per voi?
È una forma d’amore. È il gesto che incontra la materia e le dà forma, con cura, con pazienza, con rispetto. È anche memoria — un sapere che si tramanda, si custodisce, si rinnova. Ma è anche resistenza: un modo gentile di rispondere a un mondo che corre troppo. E infine è visione: perché fare con le mani ci ricorda che tutto ciò che immaginiamo, possiamo anche realizzarlo.

La famiglia prima di tutto
Cosa significa lavorare con alcuni membri della propria famiglia?
È un dono, soprattutto quando le sfide diventano più grandi di te. Con mio fratello Agostino abbiamo due visioni diverse ma complementari: io disegno l’invisibile, lui lo rende concreto. Ci bilanciamo, ci sfidiamo, ci custodiamo. Lavorare insieme è un atto di cura reciproca. La famiglia, quando è nutrita dalla stima, ti radica e ti ricorda chi sei. E quando la fiducia è profonda, il lavoro diventa una forma di amore anche quello.
Dove si vede fra cinque anni?
Mi piacerebbe continuare a crescere senza mai perdere la nostra essenza. Abbiamo da poco aperto una scuola nella nostra Bottega: un luogo dove formare giovani artigiani, ma anche accogliere nuovi saperi, nuovi mondi. Immagino uno spazio che diventi sempre più un centro culturale, un laboratorio creativo, un luogo d’incontro tra arte, impresa e responsabilità. Mi vedo circondata da persone libere, appassionate, gentili. Ancora qui, in questo luogo che ci ha insegnato a credere che, anche in silenzio, si possa fare moltissimo.
(Intervista a cura di Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life)
