Un tempo esisteva il concetto di responsabilità, ma in una società votata all’ipocrisia, dove la polvere si ripone sotto i tappeti e non si pulisce, anche nel mondo del lusso, la facciata rischia di essere più spessa della sporcizia che si nasconde nei meandri della produzione e allora la domanda sorge spontanea: i brand di lusso, anche se appaltano il lavoro fuori dall’azienda, sono responsabili di ciò che accade ai fornitori? Di come vengono trattati?
Negli ultimi mesi, come ormai è ampiamente noto, l’Italia è finita al centro di un grave scandalo sulla filiera del lusso. Brand come Dior, Armani, Valentino, Alviero Martini e ora Loro Piana sono finiti sotto inchiesta per presunte violazioni dei diritti dei lavoratori legate a pratiche di subappalto non autorizzato, uso di manodopera irregolare, sfruttamento, e condizioni di vita e lavoro estremamente precarie
Cosa è accaduto: i casi più rilevanti
- Dior e Armani sono stati indagati dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per aver presuntamente enfatizzato l’eccellenza dei loro prodotti mentre i fornitori impiegavano lavoratori pagati al di sotto del salario minimo, con orari oltre la soglia legale e in condizioni insalubri.
- Dior ha accettato di versare circa €2 milioni a programmi per sostenere vittime di sfruttamento del lavoro, senza ammissione di violazione da parte dell’autorità, ma ha annunciato un rafforzamento dei controlli etici lungo la supply chain.
- A luglio 2025, un tribunale di Milano ha imposto l’amministrazione giudiziaria per un anno su Loro Piana, rilevando che l’azienda aveva esternalizzato la produzione attraverso società senza capacità logistica a officine cinesi in Italia dove i lavoratori vivevano in dormitori abusivi, lavoravano fino a 90 ore a settimana per 4 € l’ora, e uno ha subito un’aggressione per aver chiesto stipendi arretrati (45 giorni di prognosi).
- Loro Piana ha dichiarato di aver interrotto ogni rapporto con il fornitore implicato entro 24 ore dopo aver scoperto la situazione, pur ribadendo il proprio impegno per i diritti umani e controlli più stringenti.
Il problema sistemico: subappalto e trasparenza carente
Il nocciolo della crisi risiede nel meccanismo del subappalto: fornitori affidati dai brand principali spesso re-subappaltano a loro volta a imprese fittizie o poco trasparenti. Gli audit, anche quelli affidati a terze parti, spesso non rilevano queste catene parallele o non includono ispezioni in loco. L’inchiesta parla di un modello consolidato e generalizzato nella produzione del lusso in Italia, non casi isolati.
Reazioni del settore e iniziative legislative
- L’Italia, attraverso il ministero delle Imprese e del Made in Italy, ha annunciato l’introduzione di uno schema di certificazione preventiva per proteggere il marchio Made in Italy e distinguere le aziende virtuose da quelle illegali.
- A maggio 2025, Confindustria Moda, autorità pubbliche e rappresentanti sindacali hanno firmato un protocollo volontario per favorire la tracciabilità, con l’istituzione di un database centrale di fornitori e una “lista verde” dei fornitori certificati.
Opinionismo e impatto sulla percezione del consumatore
Molti consumatori — in particolare i più giovani — esprimono crescente disincanto verso il lusso, percependo che gran parte del costo non rifletta qualità o artigianalità, ma margini gonfiati legati a sfruttamento e trasparenza scarsa. Esperti come Dana Thomas (autrice di Deluxe e Fashionopolis) e operatori del settore sostengono che l’illusione del lusso sta diminuendo e che i consumatori vogliono sempre più sapere chi ha fatto cosa, come, e dove.
Responsabilità estesa o mera apparenza?
Sì, i marchi del lusso sono – e devono essere – legalmente responsabili di quello che avviene nella loro filiera, anche se la produzione è affidata a terzi. Le sentenze italiane testimoniano che la giustizia può imporre controlli esterni se un marchio non dimostra di aver verificato concretamente le condizioni dei fornitori.
Il sistema attuale è basato su un delicato equilibrio tra auditing formale, codice di condotta e fiducia—una costruzione fragile quando diventa opaca. Ciò che serve ora sono normative europee e nazionali vincolanti, maggiore trasparenza sui fornitori (anche a livello Tier 1), certificazioni obbligatorie ex ante, e sanzioni reali in caso di omissioni.
Solo così l’immagine del “Made in Italy” potrà davvero tornare a rappresentare qualità, artigianalità e responsabilità sociale.
(a cura di Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life)