Diciamolo, esistono delle parole che, quando entrano nel modo di dire comune, rischiano di perdere il loro potere e la loro forza e, sostenibilità è proprio una di queste. La troviamo ovunque: su etichette, campagne pubblicitarie, sfilate, e persino negli slogan della fast fashion. L’abbondanza di esempi in cui troviamo questo termine non è casuale: la moda è uno dei settori più sotto pressione per il suo impatto sociale e ambientale e sempre più consumatori prestano attenzione ai valori dietro un capo di abbigliamento.
Tuttavia, se da un lato cresce la domanda di trasparenza, dall’altro aumenta anche la tentazione per molte aziende di fare sembrare sostenibile ciò che non lo è davvero. È questo il cuore del greenwashing: una comunicazione che dà un’impressione ambientale positiva senza sostenerla con azioni concrete e verificabili.
Riconoscerlo è fondamentale per scegliere in modo consapevole e premiare chi lavora davvero bene.
Di seguito, sette segnali chiave per smascherarlo.
1. Vantarsi di fare poco: la foglia di fico della sostenibilità
Una delle tecniche più diffuse è mettere in grande evidenza un micro-miglioramento per distogliere l’attenzione dal resto. Come? Ad esempio raccontando che un capo sia realizzato con un materiale “più sostenibile”, ma nel frattempo il brand continua a produrre miliardi di pezzi ogni anno. Oppure sottolineando l’adozione del riciclo di un qualsiasi elemento, ad esempio la carta negli uffici, senza fare menzione alcuna sulla filiera tessile, che rappresenta il vero impatto.
Quando l’unica azione raccontata è marginale rispetto al business principale, è quasi sempre greenwashing.
2. Frasi vaghe e imprecise: se non è chiaro, non è vero
“Collezione ecologica”, “materiali consapevoli”, “scelte green”.
Se le parole non sono accompagnate da dati, è solo marketing.
La trasparenza è numeri: percentuali di materiali riciclati, certificazioni indipendenti, riduzione effettiva delle emissioni.
Quando la comunicazione si ferma agli slogan, c’è una probabilità altissima che dietro ci sia poco o nulla.
Una regola utile: se un claim può significare tutto, in realtà non significa niente.
3. Autocertificazioni e marchi inventati
Alcuni brand creano icone verdi, sigle eco-sounding o loghi con foglioline che potrebbero richiamare la presenza di certificazioni che, in realtà, non esistono o non sono adottate dall’azienda.
La sostenibilità, quella reale, si basa su verifiche indipendenti: GOTS per le fibre organiche, GRS per i materiali riciclati, B Corp per il modello d’impresa, solo per citarne alcuni.
Se un marchio racconta di essere “certificato” ma non specifica da chi, è il momento di dubitare.
La vera garanzia arriva da chi si sottopone a controlli rigorosi e pubblici.
4. Un capo sostenibile in mezzo a una produzione insostenibile
Un’altra strategia abbastanza comune consiste nel creare una capsule “green”, mentre il 95% del catalogo continua a seguire logiche fast fashion o comunque non sostenibili. È una vetrina: dimostra ciò che il brand potrebbe fare, senza però cambiare davvero.
Se la sostenibilità resta confinata a un progetto speciale o a un esperimento comunicativo, significa che non è parte della strategia, ma solo un modo per migliorarsi l’immagine.
La vera trasformazione avviene quando i cambiamenti diventano strutturali, non episodici.
5. Materiali riciclati… prodotti usa e getta
Ci sono capi che dichiarano orgogliosamente “100% poliestere riciclato”, ma fanno parte di collezioni che cambiano ogni settimana. Un materiale “meno impattante” non compensa un modello di business che spinge al consumo rapido e alla breve durata del prodotto.
La sostenibilità non è solo cosa si usa per produrre, ma quanto si produce e quanto a lungo il capo resterà nel nostro guardaroba.
Se la promessa si limita al tessuto, senza ripensare il ciclo di vita del prodotto, è solo un trucco semantico.
6. Nessuna informazione sulla filiera
Quando un brand non dice dove e da chi vengono prodotti i capi, la domanda sorge spontanea: cosa c’è da nascondere?
La moda sostenibile richiede tracciabilità: luoghi, fornitori, condizioni di lavoro, uso delle risorse.
Se queste informazioni non sono disponibili, il rischio che dietro ci siano sfruttamento e inquinamento è molto alto.
La regola è semplice: nessuna trasparenza = nessuna fiducia.
7. Promesse future al posto di risultati attuali
Il greenwashing può essere proiettato nel tempo: “emissioni zero entro il 2050”, “100% materiali riciclati nel 2035”.
Gli obiettivi a lungo termine sono importanti, ma senza piani concreti e tappe intermedie non valgono.
Molte aziende dichiarano traguardi irrealistici o troppo distanti, sperando che nessuno si ricordi di verificarli.
La sostenibilità vera si misura oggi, non negli slogan del domani.
Il potere che abbiamo come consumatori
Smontare il greenwashing non serve a creare sfiducia, ma consapevolezza. Esistono tantissimi brand, realtà artigiane e designer che lavorano ogni giorno con coraggio e coerenza. Il modo migliore per sostenerli è scegliere con occhi aperti: chiedere trasparenza, informarsi, selezionare meno e meglio.
Perché ogni nostro acquisto è un voto sul mondo che vogliamo indossare.
(a cura di Gaiazoe.life)