E’ dei giorni scorsi lo scandalo sollevato da un articolo pubblicato su Bof in cui si evidenziava come il marchio Loro Piana sia stato l’unico acquirente negli ultimi anni di lana di vicuna proveniente dalle remote alture delle Ande peruviane. E fin qui, forse (anche se non dovrebbe essere così) niente di strano. Il vero problema, però, è che oltre a essere l’unico acquirente, Loro Piana ha sottopagato i lavoratori sebbene la lana di vicuna sia molto pregiata e venga venduta dallo stesso brand di lusso a prezzi accessibili a pochi happy privileged.
Dalle Ande al mondo occidentale dei ricchi
Se da un lato, i lavoratori intraprendano un arduo viaggio fino a una piana remota situata a 13.000 piedi sopra il livello del mare, dove le vicuñas selvatiche sono raccolte e tosate per ottenere la loro lussuosa lana, che è altamente pregiata nel mondo della moda di lusso, dall’altro, un brand che appartiene a una multinazionale del lusso (LVMH Moët Hennessy Louis Vuitton SE) si limita a pagare cifre ridicole ai lavoratori, esercitando un forte ricarico sulla vendita dei capi realizzati con questa materia prima molto ricercata e preziosa. Ed è così che l’ingenuo popolo della moda, la scorsa settimana si è svegliato tornando alla realtà (sì, ma per quanto?) dove ancora oggi alcuni fashion brand – non solo del lusso – lavorano sfruttando la manodopera dei Paesi più poveri (e quindi più ricattabili) per arricchire gli armadi dei ricchi occidentali.
Questo contrasto tra l’abbondanza del lusso e la mancanza di ricompensa per coloro che producono tale lusso solleva interrogativi su equità e giustizia economica. Mentre i marchi di lusso prosperano, le comunità locali che contribuiscono alla loro produzione spesso rimangono nel degrado economico. È un ciclo che solleva domande importanti sulla responsabilità sociale delle aziende e sulla distribuzione equa delle ricchezze.
Sfruttamento della mano d’opera e schiavitù: una pratica diffusa
Tuttavia quanto emerso da Bof non è, purtroppo, una novità: i report che analizzano le condizioni di lavoro delle popolazioni più sconosciute o povere, da tempo evidenziano come queste siano oggetto di sfruttamento da parte dei Paesi occidentali dove la moda detta ancora legge. E’ di qualche mese fa il report “Responsabilità Sartoriale: Tracciare le Catene di Fornitura dell’Abbigliamento dalla Regione Uigura all’Europa” che metteva in evidenza come la Repubblica Popolare Cinese metta ai lavoro forzati la popolazione degli uiguri, una minoranza etnica nella regione autonoma dello Xinjiang, che di fatto lavora in condizioni al limite della schiavitù per brand come Zara, Ralph Lauren e Levi’s .
La regione uigura è stata oggetto di attenzione internazionale per anni, a causa delle segnalazioni di violazioni dei diritti umani da parte delle autorità cinesi. La produzione di cotone e PVC, due componenti essenziali per l’industria tessile, è concentrata in questa regione, insieme a numerose fabbriche che si ritiene sfruttino il lavoro degli uiguri. Il lavoro forzato fa parte di un più ampio progetto di repressione del governo cinese contro il popolo uiguro, che comprende anche fenomeni come la migrazione forzata, la sorveglianza di massa e l’esproprio di terre.
Il rapporto, frutto della collaborazione tra l’Uyghur Rights Monitor, l’Helena Kennedy Center for International Justice e l’Uyghur Center for Democracy and Human Rights, identificava 39 marchi ad alto rischio di approvvigionamento di abbigliamento realizzato con il lavoro forzato degli uiguri. Questi marchi sono collegati a quattro principali produttori tessili e di abbigliamento con sede in Cina che hanno legami significativi con la regione uigura. Tra i marchi segnalati dal report ci sono anche Hugo Boss, Ralph Lauren, Prada, Max Mara, Albini e Burberry.
Questo rapporto ha sollevato dibattiti anche a livello politico, soprattutto nell’Unione Europea. Attualmente, non esiste una politica dell’UE che protegga i consumatori dall’acquisto di prodotti realizzati con il lavoro forzato. Tuttavia, si sta discutendo di introdurre normative volte a vietare l’ingresso nel mercato dell’UE di tali prodotti e a promuovere la sostenibilità aziendale attraverso una maggiore trasparenza nelle catene di approvvigionamento.
Ma la domanda è: con la consapevolezza che una parte della popolazione mondiale viene sfruttata per produrre capi di moda, gli utenti continuerebbero ad acquistare i suddetti capi?
(a cura di Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life)