E’ capitato a tutti, probabilmente, in passato, anche a Greta Thumberg, prima di diventare l’eroina mondiale della sostenibilità, di acquistare uno o più capi in una catena di fast fashion. Tuttavia, se nel passato, nel mezzo delle ubriacature di partnership tra catene di cheap chain e grandi marchi della moda (che a pensarci ora, probabilmente, vorrebbero cancellare ogni traccia di queste collaborazioni) non ci rendevamo conto dell’impatto che la moda a basso costo ha sul Pianeta, oggi non è più possibile essere né in malafede né ignoranti. Ci sono davvero tutti gli strumenti per sapere che fast fashion è sinonimo di non sostenibile, laddove questa parola si intreccia non solamente con il concetto di impatto sull’ambiente ed emissioni di CO2 e CO4 , ma anche sullo stile di vita, sui diritti riconosciuti e rispettati dei lavoratori in ogni parte del globo terrestre.
E non c’è momento migliore per ricordarlo (e dare un promemoria a chi si lascia distrarre da altri eventi mediatici) di oggi, giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale dell’Ambiente.
Ma come impatta sull’ambiente il fast fashion (se ci fosse ancora bisogno di ricordarlo)?
La moda del fast fashion (intendiamoci, anche la moda dei grandi marchi inquina, tuttavia nell’ambito del lusso, avendo una produzione di capi meno numerosa e frequente delle collezioni del FF, l’impatto è leggermente inferiore. Per inciso: per Gaiazoe la moda, tutta la moda, deve diventare sostenibile) è quella che nell’ambito della produzione dell’abbigliamento inquina maggiormente. Le aree colpite sono diverse e numerose:
- Consumo di acqua – Per produrre una maglietta di cotone occorrono 2.700 litri di acqua (ndr che corrisponde, per avere un’idea, al quantitativo di acqua che una persona dovrebbe bere in 2 anni di vita).
- Inquinamento delle acque – la produzione tessile, ancora oggi, è responsabile dell’inquinamento globale dell’acqua potabile a causa delle operazioni di tintura e finitura (20%). Non solo: nelle acqua vengonon rilasciate le microplastiche che finiscono nella catena alimentare (ovvero nello stomaco dei pesci e nei nostri)
- Gas effetto serra – L’industria del fast fashion è responsabile del 10% delle emissioni globali di CO2. Nel 2017, secondo l’Agenzia europea dell’ambiente, l’acquisto di prodotti tessili ha generato 654kg di emissioni di CO2 a persona.
- Rifiuti -i capi che vengono dismessi, dovrebbero essere donati invece, ancora oggi molte persone li buttano dopo averli indossati pochissime volte. Questi vengono bruciati (inquinando l’aria) oppure trasportati nelle discariche.
- Sfruttamento della manodopera a basso costo. Le catene di fast fashion continuano a produrre i propri capi in Paesi dove il lavoro non è regolamentato. Per questo spesso la manodopera è minorile e, quando anche i lavoratori siano adulti, le condizioni lavorative sono spesso disumane contribuendo a incrementare il fenomeno della schiavitù ( e siamo nel 2022).
Su questo blogzine non leggerete mai di Top Shop, Zara, H&M, Benetton, Bershka, Shein e altri marchi simili.
E’ una scelta che Gaiazoe porta avanti da sempre con coerenza.
Viviana Musumeci, founder di Gaiazoe.life