Se da un lato i tessuti derivanti dalle fibre naturali sono per loro natura biodegradabili, alcuni tessuti possono esserlo meno.
Sono principalmente quattro i parametri secondo cui è possibile fare una distinzione dal minore al maggiore impatto delle fibre vegetali: la coltivazione della pianta, il processo di trasformazione, le tinture-finissaggi sul tessuto, le proprietà d’uso.
Partiamo dalla coltivazione della pianta
Le piantagioni di cotone sono di tipo intensivo e necessitano di molta acqua e pesticidi anche se negli ultimi anni la tecnologia ha permesso di ottimizzare le risorse riducendo gli sprechi e le sostanze dannose (alcuni esempi virtuosi si trovano proprio in Italia).
Purtroppo diversi recenti scandali confermano non solo fenomeni di coltivazione intensiva e consegente desertificazione, ma vera distruzione delle foreste vergini in Sud-America con sfruttamento illecito di risorse e manodopera a favore dei bassi prezzi e grandi quantità del fast- fashion (vedi il caso Cerrado).
La domanda scomoda è: si tratta di cotone solo per il fast fashion oppure siamo tutti coinvolti al di la delle certificazioni? Chi controlla?
Riguardo la coltivazione del lino e della canapa, esse resistono a siccità e temperature elevate, e quest’ultima reprime naturalmente le erbe infestanti e immagazzina quantità di CO2 superiori rispetto alla media delle piante.
Perché non incentivarne l’uso?
Passiamo al processo di trasformazione da filamento in filato tessile
Linter e’ lo scarto del cotone che un tempo era destinato al macero, mentre di recente e’ spesso ridotto in polimeri di bioplastiche o trasformato, insieme ad altri scarti cellulosici, in fibre artificiali. Speriamo senza troppi additivi chimici e spreco di risorse non controllato….
Dallo stelo di canapa si ottengono il 20% di fibre tessili per cui sarebbe auspicabile investire in macchinari di ultima generazione al momento presenti solo in Cina. Se fino a un centinaio d’anni fa l’Italia era una grande produttrice di tessuti in canapa, oggi tutta la filiera è andata perduta e sarà necessario investire cospicui capitali in macchinari di nuova generazione per trasformare la fibra vegetale in filato sottile e appetibile per l’abbigliamento contemporaneo.
Un altro motivo che giustifica la coltivazione della canapa come tra le più “sostenibili” è che dal raccolto nulla va sprecato. Infatti dal restante 70% di canapolo si ottengono carta, biocarburanti e ottimi materiali per la bioedilizia come cappotti termici e isolanti, infine anche farine e olio alimentare ricchi di omega 3 e 6.
Riguardo ai finissaggi
La regola generale è la tintura del filo con successiva tessitura del tessuto. Questo metodo, al di là del tipo di fibra, consente colori più vibranti e consuma molta meno acqua e passaggi di finissaggio rispetto alla tintura del tessuto in pezza.
Interessante notare che anche per i coloranti ci siano start-up in grado di azzerare i componenti chimici dannosi, ma a questo potremo dedicare uno spazio a parte.
L’ultima considerazione che noi “consumatori” dovremmo sempre fare riguarda le proprietà d’uso delle fibre dei nostri abiti.
Per quanto riguarda le fibre vegetali, rispetto al cotone, la canapa e il lino sono più simili alla lana, poiché oltre ad essere durevoli sono termoregolatrici, cioè adatte tutto l’anno.
E qui torna il mantra “meno ma meglio”…
(a cura di Francesca Marchisio, fashion designer e curatrice della rubrica “Perché circolare è meglio“)