Lo so, chi legge questo post, probabilmente pensa che contenga le modalità (al limite del magico, perché oggi è questo che Google promette come se fosse un oracolo, o quantomeno, questa è la modalità con cui viene interrogato) relative a come proteggersi dal famigerato coronavirus, ma in realtà, il contenuto di questo post è più prezioso, visto soprattutto quanto accaduto in termini di psicosi negli ultimi giorni. Questo non è, infatti, un post di informazione su come si cura il coronavirus o come si muore, quando si viene contagiati. Per inciso, tutto quello che so lo si può tranquillamente apprendere dai siti di informazione seri e dal sito del Ministero della Sanità, sapendo che ogni informazione non è mai esaustiva e che, trattandosi di un work in progress, è necessario seguire la sua evoluzione. Detto questo la scienza rispetto al coronavirus si è già espressa attraverso studiosi autorevoli come Roberto Burioni, Ilaria Capua e molti altri o di divulgatori, sempre autorevoli come Roberta Villa,quindi l’invito che posso fare è quello di informarsi in maniera consapevole, che in fondo, è il vero oggetto di questo post.
Negli ultimi giorni, infatti, ho letto di tutto e di più sui social maturando la convinzione che, quanto detto tempo fa da Umberto Eco sulla questione del bar sport 2.0, fosse assolutamente corretto. Quando la frase dell’illustre semiologo, filosofo, scrittore, traduttore, accademico, bibliofilo e medievalista italiano (uso volutamente tutti i titoli che gli vengono riconosciuti, quantomeno da Wikipedia a dimostrazione che chiunque avesse avuto un’opinione diversa, per essere preso in considerazione in maniera altrettanto autorevole avrebbe dovuto avere, quantomeno, pari titoli) divenne virale, molti lo attaccarono come se fosse una frase classista e snob. Soprattutto lo fecero, molte persone dotate di titolo di studio accademico e socialmente impegnati in ruoli di rilievo. Perché tale reazione? E’ molto semplice, perché venivano “abbassati”, quindi volgarizzati al livello del popolino da cui, tendenzialmente pensano di discostarsi intellettualmente parlando. Ma Eco voleva semplicemente dimostrare che il contesto dei social toglie qualsiasi inibizione ai commentatori (persino uno scienziato come Burioni, spesso cade nel tranello della informalità del linguaggio richiesta dai social, visto che è come se entrasse in un bar sport a parlare di virologia e quindi è chiaro che, anche non volendo, qualche abbassamento scappa).
Questo, peraltro, è un meccanismo messo in atto in tempi non sospetti dalla televisione a cavallo tra gli anni 90 e 2000 con i talk show dove illustri scienziati, giornalisti, pensatori e intellettuali venivano mischiati alla “gente laureata all’università della strada” dove, però, il fondo non si toccava, in quanto il demiurgo (uno su tutti Maurizio Costanzo) teneva le fila dei discorsi attraverso la funzione autorale – nel caso di Costanzo, per giunta, doppia, visto il suo ruolo da giornalista -.
I social, invece, mancano proprio di autori, in quanto sono degli algoritmi pari ai robot, per questo, quando si entra in un contesto simile, l’autorevolezza, nella maggior parte dei casi, viene meno. Non solo, alcuni personaggi, si trasformano vomitando tutto ciò che passa loro per la testa non applicando le stesse regole che userebbero in altri contesti, ad esempio, la realtà quotidiana o il mondo della professione.
Insomma, il percepito, errato e fatale, è che tutto sia lecito.
Tuttavia una soluzione potrebbe esistere: una forma di educazione di ritorno e di autoeducazione, che spesso latita, quando si riportano discorsi facendoli passare per notizie e verità e non per visioni parziali, se non addirittura (spesso) fake news.
Abbiamo gli hashtag: usiamoli. In questo caso ho già proposto di inserire l’hashtag di #sourcechallenge, ovvero di citare sempre le fonti nei nostri commenti e post. Sembra una sciocchezza, ma le persone sane di mente, al di fuori di Facebook o di Instagram sanno ancora la differenza che c’è tra il sito del Ministero della Sanità e www.melhadettomiocuggino.it o www.irettilianisonotradinoi.com.
Impegnamoci tutti a dimostrare responsabilità nel comunicare o condividere post sui social perché le parole hanno sempre conseguenze sui nostri cervelli e, quindi, sulle nostre reazioni. Da un punto di vista mentale, in questo momento, sui social prevale la psicosi della morte o dell’invasione (in questo caso da parte dei virus nei nostri corpi); dal punto di vista cerebrale, è probabile che la nostra AMIGDALA in questo momento stia lavorando come non mai, producendo un sacco di CORTISOLO (inutile, del resto), perché la soluzione al problema CORONAVIRUS non è sui social, ma nei laboratori, negli ospedali, nei governi, e nelle precauzioni che si prendono nella vita vera per limitare il contagio.
Sui social, il vero problema, rimane il contagio dell’analfabetismo: questo sì che è difficile da estirpare, ma che è indubbiamente più duraturo e dannoso per la nostra società. (Viviana Musumeci)